petza

Persi nel tempo da Roberto Petza

16 Ott 2014

Siddi, 700 anime e distese di immenso verde. Qui la natura ha fatto il nido, ma le persone no. Un tempo sede del principale pastificio della Sardegna, oggi il paese offre tante risorse ma pochi abitanti a sfruttarle. Le erbe tingono l’aria, i mandorli si appesantiscono, i fiori sbocciano e trasformano il paesaggio. Scommettere su questo centro abbandonato è arduo. Eppure Roberto Petza ha trionfato su inverni spogli e desolati, su estati calde e atipiche.

Al centro del borgo sorge S’Apposentu, la “stanza buona” dove lo chef riceve i suoi “ospiti” e esplica il suo difficile compito: quello di piegare l’arte della cucina al territorio. Non si può replicare quest’atmosfera in città; non si possono ripetere gli stessi gusti in un altro posto. S’Apposentu si apre sulla campagna e della campagna si nutre. Il pollaio e le oche spezzano il silenzio, insieme agli insetti che si posano sull’orto. Caprette e asinello seguono lo sguardo umano con vanità e un po’ di stupore. Le bucoliche virgiliane si ripropongono nella vecchia casa Puddu che oggi è anche sede di un’acclamata accademia di cucina.

A partire dalla presentazione delle portate è evidente come lo chef utilizzi tutti gli strumenti che la natura mette a disposizione. Per creare sapori nuovi, per ricamare. Ci si ritrova con un fiore in bocca e lo si assapora insieme al resto, mentre si riscoprono le potenzialità di ciò che ci circonda.

Petza non solo stupisce con le sue pietanze, ma silenziosamente impartisce una vera e propria lezione. Una lezione affinché non si abbandoni la terra, affinché i suoi doni vengano esaltati ai fornelli. È infatti forte il richiamo alla Sardegna nella vivacità degli arazzi alle pareti, nelle pietre incise sui tavoli, ma soprattutto nel sorprendente connubio di pecora e pesce, nel pollo ruspante e nel miele pungente per la sua naturalezza.

S’Apposentu diventa così una filosofia: non una mera riproposizione di piatti, ma il ritrovare la fanciullezza scavando nell’intensità dei sapori genuini.

 

Daniela Melis